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Che genere di Ateneo? Rettrici e disparità nelle università italiane (di R. Fioravante)

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La professoressa Marina Brambilla è la nuova rettrice dell'Università degli Studi di Milano. La sua elezione è stata festeggiata con ancora maggiore trasporto e supporto, non solo dall'Ateneo al suo centenario, ma da un'intera comunità accademica, quella degli atenei pubblici milanesi, oggi tutti guidati da donne.

Unitamente all'elezione della rettrice professoressa Iannantuoni alla presidenza della CRUI, questi segnali apicali raccontano un cambiamento profondo avvenuto - non con poco sforzo e poche battute d'arresto - nelle Università italiane.

Come spesso accade, nelle organizzazioni pubbliche e private, la leadership femminile arriva prima di un cambiamento dei rapporti di presenza femminile e reale incidenza nei processi decisionali all'interno del resto della "piramide" organizzativa. In questo senso, la leadership femminile rappresenta usualmente o un momento di "assestamento" - l'organizzazione si convince di "aver fatto il suo" e tanto basta - o di potente avanzamento - laddove la leadership femminile agisce nel cambiare le condizioni di lavoro e vita delle altre donne. L'accademia, non fa eccezione.

Ancora oggi, a fronte di un numero di studentesse immatricolate maggiore dei colleghi, e di dottorande eguale a quello dei dottorandi, questa proporzione inizia a invertirsi non appena si considerino gli step successivi della carriera: sono a maggioranza maschile i ruoli di ricerca (sempre precaria) con 47%, per poi diventare esigua quando si considerano i ruoli di Professoressa Associata (38% donne), esiguissima (25% donne) Professoresse Ordinarie, simbolica per quanto concerne il rettorato (circa il 10%) (dati ADI e MUR).

Accanto a un dottorato il cui potere d'acquisto è sceso sotto quello del 2008, con una diminuzione del 10% anche solo rispetto al 2020, le condizioni economiche di assegni e post-doc segnalano, in particolare se rapportate alle ore lavorate, un compenso orario inferiore alle principali proposte di "salario minimo" oggi depositate in Parlamento. In questo scenario, sono le donne ad essere più colpite da impossibilità di risparmiare, oltre che ad una costante e perdurante (spesso per anche dieci anni di precariato) dipendenza economica da partner e/o famiglia di origine. Ciò avviene anche in assenza di gender pay gap, che pure segnala una disparità di genere evidente, in particolare se sommato a studi in materie umanistiche e appartenenza a territori del sud Italia.

Inoltre, la carriera accademica, in Italia come all'estero, è caratterizzata da precarietà e intermittenza. Tuttavia, mentre all'estero l'estrema precarietà nelle fasi post doc trova spesso un indennizzo economico, con salari superiori alla media dei salari nazionali, in Italia intermittenza e insufficienza reddituale si sommano. Contratti di breve durata, borse di studio ancora più limitate nel tempo, ricorso costante ai sussidi di disoccupazione tra un contratto e l'altro, frequenti traslochi in altre città e Paesi, impediscono una qualsivoglia pianificazione personale e familiare. Questa situazione, che ha gravi ripercussioni in termini di salute mentale e benessere materiale su tutti i professionisti della ricerca universitaria, è ulteriormente problematica per le donne che, in assenza di un partner o di una famiglia di origine in grado di garantire stabilità, si trovano di regola a dover scegliere tra maternità o avanzamento professionale.

Le indagini sul tema, mostrano come le donne siano più soggette, rispetto ai colleghi, a disturbi legati al benessere mentale, in un contesto di fragilità economica sopracitata che si somma a ritmi di lavoro estenuanti e competitività incessante. Tutti fattori esasperati dalla scarsità di fondi disponibili per il finanziamento universitario e quindi del determinarsi del cosiddetto "collo di bottiglia".

Vi sono poi alcune strutturali variabili "culturali": troppo spesso si verificano casi di non rinnovo di contratti o assegni causa maternità, penalizzazioni su progetti di ricerca per coloro che non reggono i ritmi di produzione richiesti e auto-sfruttamento lavorativo anche in stadio avanzato di gravidanza. Oltre ai casi più gravi di vere e proprie molestie, vi è una miriade di squilibri quotidiani e pure dannosissimi, come quelli che riguardano l'assegnazione alle donne di compiti amministrativi e addizionali rispetto al già enorme carico di ricerca e docenza; abitudine derivata dallo stereotipo della donna che volentieri e naturalmente si "prende cura" della comunità, e da anni di squilibrio nei ruoli ricoperti, con le donne spesso in posizioni ausiliarie. Tutto questo sta cambiando, ma le vite delle donne coinvolte in dipendenza economica, malessere psicologico e squilibri quotidiani non possono essere considerate un male necessario per attendere un cambiamento ancora troppo lento e timido.

L'accademia non ha oggi un "soffitto di cristallo" ma un macigno di cemento: la sua carriera interna è strutturata in modo da penalizzare sistematicamente le donne e in particolare coloro che non hanno una posizione economica solida al di fuori degli atenei. Solo quando le governance degli atenei, a partire dalle loro rettrici - e a partire proprio dagli atenei più virtuosi, come quelli milanesi - chiederanno maggiori finanziamenti al governo, per costruire posizioni di lavoro stabili, ben retribuite e attente alle esigenze delle persone, finanziamenti non solo per centri di eccellenza ma anche per dipartimenti e atenei in difficoltà, dove più necessarie sono le risorse per colmare le diseguaglianze, solo allora le donne potranno essere davvero libere e protagoniste nella vita della ricerca e della docenza universitaria. Non una donna, non alcune donne, ma tutte le donne.

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